venerdì 16 marzo 2012

Sono storie di incontri due.


  

Era mattino.
E lei era in un letto che non era il suo. Era successo per l’ennesima volta.
Il suo ultimo ricordo nitido risaliva a quel mojito con abbondante zucchero di canna. Il quinto, forse anche il sesto.
Certo, lui era uno di quelli belli davvero. Non aveva avuto il tempo di scoprire se fosse anche bello nell’anima, ma quegli occhi parlavano da sé, e forse sarebbero comunque bastati. Ad ogni modo non avrebbe importato, era solo un corpo, che aveva sfiorato, che non era stato suo. Faceva fatica a ricordare cosa significava sentire un corpo proprio, sentirsi toccare nelle pareti dello stomaco.
Di certo non era stato così la sera precedente.
Il tempo di uno sguardo fuori dalla finestra, di raccogliere voracemente le proprie cose, ed era già sugli scalini che la sera prima sembravano molti meno.
Fuori c’era il sole.
E aveva lasciato il suo libro all’interno di quella casa, pazienza. Quel libro che stava leggendo ieri sera al pub non le piaceva poi così tanto.
Era successo di nuovo.
E non si ricordava nemmeno più quando aveva iniziato.
Aveva il suo fascino questo gioco, incontri e scontri che nemmeno hanno il tempo di un ricordo.
Anche lei era molto bella, e lo sapeva.
Qualche ricordo lontano affiorò. Forse aveva iniziato lì.
Improvvisamente il rumore della nostalgia, talmente silenzioso da divenire assordante, non per le orecchie, ma per l’anima.
Il ricordo di quelle prime rughe ai lati degli occhi. Ancora una volta, blu. Quante volte li aveva cercati e ci si era persa. Quanti altri ancora ne aveva visti come quelli.
Non aveva chiesto ipoteche. Né su quegli occhi, né su nient’altro.
Era stato intenso, un vortice. Caldo come un fuoco. Poi ci si scotta, doveva saperlo.
Eppure.
Ora si trovava lì, non stava nemmeno scappando, stava respirando.
Il rumore dei gabbiani, il mare davanti. Quel porto che era casa sua. Aveva camminato e ci era arrivata senza deciderlo. Era un po’ come un rifugio, correva lì fin da bambina a guardare le navi quando litigava con sua madre. Prima o poi avrebbe preso una nave, qualsiasi, e sarebbe salpata. La meta non importava, anche un merci, con tutti quei ruvidi marinai. Ci aveva pensato a diventare uno di loro, ma suo fratello maggiore glielo aveva impedito, troppo pericoloso per una ragazzina tutta sogni e noncuranza.
Sapeva che quando avrebbe deciso, non sarebbe più tornata.
Forse c’era ancora tempo.
Respirò.
E per la prima volta dopo molto tempo riuscì a sentire l’aria che entrava nei polmoni.
C’era ancora spazio. Per qualcos’altro. Anche se gli spilli si sentivano tutti.
E non avrebbe smesso di giocare, non ancora.
Non avrebbe smesso neppure di farsi travolgere, talvolta, da quella nostalgia. Almeno fino a quando non si fosse svegliata la mattina con un pensiero diverso da quel mare.
Non era ancora tempo.


  

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