mercoledì 18 maggio 2011

Cina. La vita degli artisti è più fragile delle loro opere.





Il giorno in cui è stato arrestato con l'accusa di evasione fiscale, Ai Weiwei si stava imbarcando per Hong Kong. Nelle stesse ore, stesso aeroporto, i rappresentanti delle istituzioni politiche e culturali tedesche tornavano a casa dopo aver inaugurato la mostra sull'Illuminismo al Museo nazionale della Cina. Sono passati 43 giorni dall'arresto, e del grande artista e architetto cinese nessuna notizia. «Crimini economici» continua a essere la motivazione ufficiale del Governo.
«Sappiamo che Ai è in carcere per la sua attività politica», racconta via mail lo scrittore Yu Hua, autore dei bestseller internazionali Brothers e Arricchirsi è glorioso, che, come Ai Weiwei, continua a vivere in Cina nonostante le minacce. «Gli artisti spesso vendono privatamente le loro opere – scrive – rischiando di avere problemi con il fisco. Può darsi che il Governo abbia usato questo pretesto per arrestarlo». La stretta di Pechino contro la libertà d'espressione non spaventa Yu: «Continuo a scrivere quello che voglio e a criticare alcune posizioni del Governo.
La Cina si trova in una fase di stravolgimenti e uno scrittore ha il dovere di raccontarli con un approccio critico». Anche Yu potrebbe finire nella lista nera degli intellettuali perseguitati dal governo. Tra i tanti ricordiamo: Liu Xiaobo, vincitore del Nobel per la pace, in prigione dal 2010 per «incitamento alla sovversione»; Ye Du, esponente dell'associazione Pen International, arrestato con la stessa motivazione a febbraio; lo scrittore Liao Yiwu, a cui recentemente è stato negato il visto per partecipare a festival di letteratura all'estero; l'attivista Liu Xianbin condannato a dieci anni di carcere per articoli critici con il Partito. «La vita degli artisti è più fragile delle loro opere» ha scritto sul quotidiano britannico «The Guardian» lo scrittore Salman Rushdie, chiedendo il rilascio immediato di Ai Weiwei. Ciò che impressiona studiando le vite dei dissidenti è la consapevolezza che hanno della loro fragilità.
Nel 2009, pochi giorni prima che il Governo lo censurasse, Ai Weiwei diceva sul suo blog: «Cosa possono fare più di mettermi al bando, rapirmi o imprigionarmi? Potrebbero forse costruire la mia sparizione nell'aria, ma non hanno creatività o immaginazione». Oggi che la Mit Press ha riunito in un libro, Ai Weiwei's blog, gli scritti prodotti dall'artista tra il 2006 e il 2009, è più facile ricostruire la storia di resistenza dell'artista, il cui nome, in Cina, è una parola vietata su internet. «Non venite a cercarmi ancora. Non voglio collaborare. Se lo farete portate con voi i vostri strumenti di tortura», scrive il 28 maggio 2009, rivolgendosi alla polizia che, poche settimane prima, gli aveva procurato un trauma cranico.
Il motivo? Insieme all'ambientalista Tang Zuoren, Ai stava portando avanti un'indagine sulle cause del crollo delle scuole che ha provocato la morte di 5mila studenti durante il terremoto nel Sichuan del 2008. È la stessa polizia che ha distrutto il suo studio di Shangai e lo ha fermato in aeroporto temendo che ritirasse il premio Nobel al posto di Liu Xiaobo. Come Liu, anche Ai è firmatario della «Charta 08», il manifesto sottoscritto da 303 intellettuali per chiedere riforme democratiche nel Paese.
Secondo Yu Hua sarebbe tuttavia un errore pensare alla presenza di un movimento intellettuale in Cina: «Le associazioni di scrittori attive sono organi di Stato gestiti con fondi dispensati dal Governo. Esistono anche organizzazioni spontanee ma non hanno risonanza: al momento non vedo la cultura come un motore di progresso per il Paese». Lo scrittore è convinto che America ed Europa continuano a guardare la Cina con occhi occidentali. Mentre – da Berlino a New York – si moltiplicano gli appelli di artisti e intellettuali (Anish Kapoor, Luc Tuymans, Salman Rushdie, Umberto Eco) e le manifestazioni di piazza al grido di «Free Ai Weiwei», a Pechino, l'attenzione per l'artista rischia di aumentare la distanza tra l'opinione pubblica occidentale e quella cinese, che vede nelle proteste degli intellettuali d'Europa una prova delle colpe di Ai Weiwei.
Xinran, autrice del libro Le figlie perdute della Cina (in uscita in Italia per Longanesi) e fondatrice dell'organizzazione The Mothers' Bridge of Love, chiarisce un altro equivoco: «Il dibattito sulla libertà di espressione in Cina va avanti da secoli: inizia quando l'imperatore Qin Shi Huang nel 200 a.c. ordina di seppellire vivi 460 studiosi, passa dai due milioni di cinesi scomparsi durante la Rivoluzione culturale e arriva ad Ai Wewei». Alla scrittrice non mancano parole di speranza: «Gli Stati più sviluppati d'Occidente hanno impiegato secoli per arrivare alla democrazia, è impossibile pretendere dalla Cina di raggiungere standard internazionali in 30 anni».
 
Serena Danna

 
 
 
 

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