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Forse non lo conoscete. E invece dovreste. Certo è che, dopo la sua personale al Salomon Guggenheim Museum di New York, in pochi non lo conoscono. Ma all’estero. Maurizio Cattelan ha animato l’editoria e la vita tutta paillettes e glamour dello scorso autunno newyorkese, ma in Italia sembra esserci un meccanismo artistico che si intreccia con le abitudini estetiche di una vecchia borghesia.
Ovvero: prima tutti a storcere il naso di fronte a quel dito medio di metri 4 e 60 in Piazza Affari Milano, poi tutti ad andare fieri del “grande” Cattelan in terra americana. È pur vero che i meccanismi artistici dettano il fin-che-non-muori-non-sei-nessuno, ma Cattelan è irriverente, arrogante e cervello-in-fuga (abita a New York) per essere smoderatamente contemporaneo. Il dito è solo l’ultimo esempio, di irriverenza e di polemica. Sì, perché ogni sua opera, non si sa come ci riesca, si tira sempre dietro un polverone di polemiche non indifferente. Ultimo quel dito medio che qualcuno pensa sia un gesto di protesta, in un periodo di crisi, contro il potere della Borsa, e qualcun altro che potrebbe trattarsi anche di un saluto romano mozzato. Prima, con ordine: il manichino del bambino con le mani inchiodate ad un banco, il cavallo appeso al soffitto, fantocci-bambini impiccati all’albero in centro a Milano, Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, il gallerista appiccicato al muro della sua galleria, per un intero giorno. Era lui l’opera, ma molti non se ne accorsero.
Polemica? Affronto? Ironia? Poco importa all’artista che del suo piglio intuitivo e arrogante, che nulla perde dell’estetica contemporanea, ha fatto bandiera. Maurizio Cattelan si fa portavoce di quell’Italia che guarda, da fuori penisola, la stessa patria storcendo un po’ il naso: qualcosa non quadra, qualcosa puzza, bisogna grattare lo sporco sulla superficie per salvare quella “bella Italia” che tutti conoscono. Ma come fare per restare su piazza? Prendendola un po’-per-il-culo, cosa che, poi, tutti gli italiani sembrano essere innati nel saper fare. Questa tendenza critica-artistica tutta all’italiana, che prima sbeffeggia e poi millanta, fa pensare. Fa pensare anche in tempi di crisi dove l’arte sembra non saper dar da mangiare.
E allora un Gianluigi Ricuperati si chiedeva, prendendo in causa il Castello di Rivoli, alcuni giorni fa su Il Sole 24 Ore: “cosa pensereste se il vostro museo preferito vendesse uno dei suoi Cattelan per non morire?” Ve lo dice lui. “Pensereste che i tempi, col sopracciglio alzato; e aggiungereste difficili. E sarebbe vero. E sarebbe altrettanto vero che quando i tempi si fanno difficili, le scelte possono essere dignitosamente difficili”. Insomma, ipotizzava che uno, l’arte di questi tempi non è fatta di pancarrè. Due, che il millantare di cui prima parlavamo, è strettamente collegato alla politica dell’art-commerce.
Non ci sfameremo con l’arte, ma ci sono ancora buone possibilità per pensarlo. E riecco il nostro Cattelan, ancora in vita e che non sbaglia neppure mezza mossa di marketing. Ed è pure bravo. Perché, diciamocelo, alzi la mano (non il dito medio) chi non è in grado di fare un elenco di una mezza dozzina di posti in cui sposterebbe volentieri l’opera di Cattelan. Sarebbe un po’ populista, ma più democratico. Evviva la condivisione d’arte e d’intenti, dunque. Cattelan potrebbe insegnare qualcosa anche a chi ritiene la sua arte l’ultima baracconata contemporanea. Arte diem!
Ovvero: prima tutti a storcere il naso di fronte a quel dito medio di metri 4 e 60 in Piazza Affari Milano, poi tutti ad andare fieri del “grande” Cattelan in terra americana. È pur vero che i meccanismi artistici dettano il fin-che-non-muori-non-sei-nessuno, ma Cattelan è irriverente, arrogante e cervello-in-fuga (abita a New York) per essere smoderatamente contemporaneo. Il dito è solo l’ultimo esempio, di irriverenza e di polemica. Sì, perché ogni sua opera, non si sa come ci riesca, si tira sempre dietro un polverone di polemiche non indifferente. Ultimo quel dito medio che qualcuno pensa sia un gesto di protesta, in un periodo di crisi, contro il potere della Borsa, e qualcun altro che potrebbe trattarsi anche di un saluto romano mozzato. Prima, con ordine: il manichino del bambino con le mani inchiodate ad un banco, il cavallo appeso al soffitto, fantocci-bambini impiccati all’albero in centro a Milano, Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, il gallerista appiccicato al muro della sua galleria, per un intero giorno. Era lui l’opera, ma molti non se ne accorsero.
Polemica? Affronto? Ironia? Poco importa all’artista che del suo piglio intuitivo e arrogante, che nulla perde dell’estetica contemporanea, ha fatto bandiera. Maurizio Cattelan si fa portavoce di quell’Italia che guarda, da fuori penisola, la stessa patria storcendo un po’ il naso: qualcosa non quadra, qualcosa puzza, bisogna grattare lo sporco sulla superficie per salvare quella “bella Italia” che tutti conoscono. Ma come fare per restare su piazza? Prendendola un po’-per-il-culo, cosa che, poi, tutti gli italiani sembrano essere innati nel saper fare. Questa tendenza critica-artistica tutta all’italiana, che prima sbeffeggia e poi millanta, fa pensare. Fa pensare anche in tempi di crisi dove l’arte sembra non saper dar da mangiare.
E allora un Gianluigi Ricuperati si chiedeva, prendendo in causa il Castello di Rivoli, alcuni giorni fa su Il Sole 24 Ore: “cosa pensereste se il vostro museo preferito vendesse uno dei suoi Cattelan per non morire?” Ve lo dice lui. “Pensereste che i tempi, col sopracciglio alzato; e aggiungereste difficili. E sarebbe vero. E sarebbe altrettanto vero che quando i tempi si fanno difficili, le scelte possono essere dignitosamente difficili”. Insomma, ipotizzava che uno, l’arte di questi tempi non è fatta di pancarrè. Due, che il millantare di cui prima parlavamo, è strettamente collegato alla politica dell’art-commerce.
Non ci sfameremo con l’arte, ma ci sono ancora buone possibilità per pensarlo. E riecco il nostro Cattelan, ancora in vita e che non sbaglia neppure mezza mossa di marketing. Ed è pure bravo. Perché, diciamocelo, alzi la mano (non il dito medio) chi non è in grado di fare un elenco di una mezza dozzina di posti in cui sposterebbe volentieri l’opera di Cattelan. Sarebbe un po’ populista, ma più democratico. Evviva la condivisione d’arte e d’intenti, dunque. Cattelan potrebbe insegnare qualcosa anche a chi ritiene la sua arte l’ultima baracconata contemporanea. Arte diem!
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